Al pronto soccorso di Gerusalemme
Arriviamo a Tel Aviv in 360 in un mercoledì di novembre. Diversi per età, origine e formazione, abbiamo in comune lo sguardo pieno di aspettative. Ci dividiamo in 8 pullman. Sul nostro, un biblista, una guida ebrea e un autista arabo. L’arrivo a Gerusalemme è un tuffo al cuore. La città si presenta con tutta la sua complessità e il suo magnetismo spirituale e storico. La gente piange al Museo dell’Olocausto e davanti al muro di Betlemme.
Poi una banale caduta e Paola si frattura la mano. Kamal ci porta al Pronto Soccorso. E’ affollato. Sedute su due sedie aspettiamo il nostro turno. C’è un gruppetto che parla sommessamente in ebraico con una giovane coppia, la ragazza è visibilmente incinta. Capiamo che arriva da un Kibbutz. C’è una mamma velata e vestita di nero, un bimbo in lacrime in braccio, un altro aggrappato alla sua gonna. Giovani soldati armati controllano i movimenti. Uno ci indica con un’oscillazione della canna del fucile che dobbiamo avvicinarci all’accettazione. Passiamo attraverso un corridoio che si forma spontaneamente : ebrei da una parte, palestinesi dall’altra. Paola piange in silenzio “tanto male ?” – “no, non è questo”. Rientriamo tardi in Hotel. Il giorno dopo si riparte. A bordo quella nuova confidenza che si forma viaggiando insieme. “Sì, dobbiamo ritornare, per cercare di capire, forse per aiutare”.